B517
Astolfo camminava da ore
per le vie di una piccola città come tante, persa nella confusione
della notte vigile. Nessuno faceva caso a lui, che aveva dimenticato
la via di casa. O, forse, non l'aveva proprio dimenticata. Forse la
verità era che Astolfo non trovava un buon motivo per tornare a casa
sua. Era solo da troppo tempo. Perfino Harimi l'aveva lasciato. Al
pensiero di quel nasino umido, che la dolce cagnetta strofinava sul
suo viso tutte le sere, Astolfo sentì un vuoto immenso occupare
tutto lo spazio disponibile nel suo cuore.
Immagine presa dal Web |
Astolfo non sarebbe
tornato a casa, quella notte. Non trovava un motivo per percorrere di
nuovo quella via, che fingeva di non ricordare più.
Cammina, cammina, Astolfo
finì al Mirabel Hotel. Non ricordava di averlo mai visto quel posto.
Eppure era lì, immenso, proprio davanti ai suoi occhi. Sembra nato
come un fungo dopo la pioggia. Infilò la porta di vetro dell'hotel.
Entrò.
Silenzio.
Astolfo fece qualche
passo verso il bancone della reception: una donna, di cui in seguito
Astolfo non riuscì mai più a ricordare nulla, gli porse una chiave:
“Stanza B517” gli disse con una voce soave.
E l'uomo, senza farsi
domande, come preso da un bisogno irrinunciabile, strinse la chiave e
si avviò d'istinto verso un ascensore grande, lussuoso, con finiture
color dorato. All'interno dell'ascensore, si rese conto di non aver
chiesto quale fosse il piano della stanza. Ma quello del Mirabel
Hotel non era un ascensore qualsiasi: Astolfo faticò un po' prima di
capire che ogni pulsante -ed erano un'infinità- corrispondeva ad una
stanza. Con pazienza, cercò il numero della sua. B517. Eccola,
finalmente. Un lieve rumore di cavi, sui quali scivolò l'ascensore,
e poi un tintinnio. Le porte scorrevoli si ritrassero. Astolfo si
trovò di fronte ad un'unica porta, con una targhetta in oro, incisa
con smalto rosso: B517.
Tutto era molto bizzarro
e insolito. Ma Astolfo era stanco. Davvero stanco. Non aveva voglia
di farsi troppe domande. Non aveva voglia di chiedersi il perché di
un corridoio con una sola stanza o di un ascensore con infinite
destinazioni. Voleva soltanto chiudersi alle spalle quella vita come
tante altre, quella città come tante altre, quel malessere che
bruciava dentro il suo cuore, come bruciava in quello di tanti altri.
La stanza era sobria. Un
letto matrimoniale, due comodini con abate-jour rosa antico, una
finestra lunga e stretta, un armadio. La moquette, anche questa rosa
antico, attutiva il rumore dei suoi passi.
Astolfo si lasciò cadere
sul letto, morbido e profumato di pulito. Meno male. Odiava gli
alberghi che non utilizzavano biancheria pulita e profumata per le
stanze. Quel piumone bianco immacolato, invece, profumava di lavanda.
Astolfo chiuse gli occhi.
Profumo di
lavanda...anche le lenzuola del suo viaggio di nozze con Lisa avevano
avuto quel profumo, ventisette anni prima. Astolfo si sentì
catapultato indietro nel tempo. In un tempo lontano in cui Lisa gli
accarezzava il corpo, desiderosa di lui, dei suoi baci, delle sue
attenzioni. Come erano arrivati a quel punto? Era colpa sua. Astolfo
lo sapeva. Non poteva biasimarla. Lui l'aveva trascurata. Troppo
lavoro, in cerca di un avanzamento di carriera che non era mai
arrivato. E che le aveva portato via sua moglie. Lisa ormai non
voleva più vederlo. Eppure, lì, in quella stanza B517, Astolfo
riuscì a sentirla di nuovo vicina. Forse era colpa di quelle
lenzuola morbide, di quel profumo di lavanda. Forse era colpa della
sbronza che si era preso circa un'ora prima.
Ti ho sempre amata.
Sempre.
Astolfo
scrisse queste cinque parole sul display del suo iPhone. Poi inviò
il messaggio a Lisa, che come foto del profilo aveva un primo piano
del suo dolcissimo viso. Astolfo non volle aspettare una risposta,
anche perché temeva che non sarebbe mai arrivata. Spense lo
smartphone e lo lasciò sul comodino.
Freddo.
Aveva sudato, prima, ed ora aveva freddo. Si tolse a fatica le scarpe
lucide ed eleganti che aveva usato per andare in ufficio. Fanculo a
quel lavoro. Fanculo a quella carriera rincorsa inutilmente per anni.
Alle vacanze a cui aveva rinunciato, all'amore che aveva perso,
all'uomo che era diventato.
Astolfo
pianse. Come piangeva da bambino. Ma, quando era bambino c'era sua
madre ad asciugargli le lacrime. C'era sua madre a stringerlo a sé.
Ora era solo. Solo in una stanza anonima con la biancheria che
profumava di lavanda.
Un
rumore.
Astolfo
ne era certo, aveva sentito raspare. Il rumore proveniva dalla porta.
Andò ad aprire.
Nessuno.
Richiuse
la porta e diede la colpa alla vodka in eccesso.
Si
accucciò di nuovo sul letto, si voltò su un fianco e cercò un
motivo per non piangere. Non ci riuscì. Gli mancava incredibilmente
Harimi. Pensò intensamente a lei. Aveva passato tutta la sua vita
accanto a lui. Sedici anni. Poi quell'incidente...
Astolfo
si chiese perché la sorte portava via sempre i migliori.
Cosa
sarebbe successo se quel giorno fosse tornato a casa prima dal
lavoro? Forse Harimi non sarebbe uscita da sola dal giardino, forse
non sarebbe finita sotto quella macchina. Forse sarebbe stata ancora
viva.
Come
sarebbe andata la sua vita se avesse dato meno valore a quel lavoro
nell'alta finanza, che prometteva di fargli guadagnare tanti soldi?
Aveva perso Lisa per colpa di quell'inutile lavoro. Lisa voleva un
figlio. Lui non si sentiva pronto. Era troppo occupato a inseguire
quella promozione...e sua moglie era andata via.
Chiuse
gli occhi. Li strinse forte. Gli parve di udire di nuovo un rumore.
Più vicino stavolta. Era un uggiolio. Non aveva dubbi. Aprì gli
occhi ma non vide nulla. Li richiuse e sentì il naso di Harimi sul
suo collo. Umido e caldo. Si commosse. Inspiegabile. Era solo in
quella stanza. Eppure, non appena chiudeva gli occhi, sentiva Harimi.
La sua cagnolina era con lui.
Astolfo,
che fosse opera della sbronza oppure frutto di qualche meraviglioso
incantesimo, si sentì come un cucciolo che ritrova la sua mamma.
Lisa
suonò a lungo al campanello di quella che per anni era stata la sua
casa. Non sentiva Astolfo da anni. E quel messaggio le aveva messo
una strana inquietudine. Ma no. Non era per quello che Lisa era lì.
Lisa era lì perché Astolfo finalmente le aveva scritto le parole
che per anni lei aveva sperato di sentirgli dire.
Ma
nessuno andò ad aprire. Lisa non vide neppure la dolce Harimi fare
capolino dal cortile. Strano. Molto strano.
Riguardò
il messaggio sulla chat di messaggistica istantanea.
Ti ho sempre amata.
Sempre.
Possibile
che ci fosse stato un errore? No, quel messaggio era proprio per lei.
Suonò ancora. Era l'alba. Dove diavolo poteva essere Astolfo, se non
a casa sua?
Vide
una freccia accanto alle parole del messaggio. Si ricordò che spesso
i nuovi smartphone segnavano la posizione esatta di chi scriveva.
Tentare non nuoce.
Sì.
il satellite lampeggiava in una via non molto lontano dalla sede
della società per la quale Astolfo si ostinava a lavorare senza
sosta.
Lisa
camminò. Camminò a lungo. E non smise di pensare. Il suo cervello
sembrava un frullatore che deve ridurre in poltiglia un'infinità di
ingredienti. Lavorava senza sosta. Cosa avrebbe detto ad Astolfo,
dopo tanti anni? Avrebbe avuto il coraggio di chiedergli scusa per
averlo lasciato solo? La loro storia poteva ricominciare? Lisa
camminò. Camminò per le vie di una piccola città come tante, che
si avviava ad un lento risveglio, dopo una notte che sembrava aver
trascorso insonne. L'odore del pane caldo, del caffè, piccole luci
che si spengono al primo bagliore pallido mattutino.
Lisa
controlla il cellulare. Astolfo non dovrebbe essere lontano. Sempre
che sia ancora in quel posto in cui si trovava quando le ha mandato
quel messaggio.
Lisa
svolta a sinistra, poi a destra e poi ancora a sinistra.
Una
corsa lungo una strada praticamente deserta, costellata di locali con
le serrande abbassate.
Astolfo
è lì. Sul marciapiede di una piccola strada deserta. Una strada
qualsiasi di una città qualsiasi. Disteso a terra, con un abito
grigio scuro e una valigetta in pelle a pochi passi da lui.
Un
uomo qualsiasi, agli occhi di chiunque. Un poveraccio che non ha più
nessuno. Un uomo prostrato e inaridito dalla vita.
Per
Lisa, invece, quello è l'uomo che l'ha sempre amata. L'amore di una
vita, che ora ha perso per sempre. Perché la vita, spesso, è
difficile. E gli errori non sempre hanno un rimedio.
Astolfo
non tornerà mai più.
In
poco tempo arrivano le ambulanze. Ma è tardi.
Lisa,
senza forze, accompagna Astolfo in ospedale. Ma Astolfo è ormai
altrove. Chissà dove.
Secondo
quanto dicono i medici, il cuore di Astolfo non ha retto: un cocktail
di farmaci e alcol. Ma Lisa sa che il suo cuore non ha retto a tutti
quegli anni di aridità. Non esiste una spiegazione scientifica
sensata ad una vita che se ne va. Ad una vita che non resiste.
“Signora,
nella tasca dell'abito di suo marito abbiamo trovato questa. Forse
lei sa che porta apre questa chiave. La polizia non è riuscita a
ricondurla a nulla. Non esiste nessun Mirabel Hotel” un medico le
porse una chiave.
Lisa
la guardò: era massiccia, dorata. Appesa, un'etichetta metallica:
B517/Mirabel Hotel.
Non
aveva idea di cosa fosse. Ma si promise che l'avrebbe scoperto. Ci
fosse voluta anche una vita intera.
Molto bello Claudia!
RispondiEliminaGrazie mille! :)
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